Recensione di Latte Arcobaleno
Latte Arcobaleno, Paul Mendez, Ed. Blu Atlantide di Febb 2021, pagg. 410
Con Latte Arcobaleno Paul Mendez ci regala un romanzo, che è al tempo stesso un originalissimo esordio letterario e un capolavoro d’espressione, un’opera di ampio respiro, che lascia sconvolti e affascinati, con una scrittura cruda, feroce, diretta e senza censure, e una storia carnale, primitiva, essenziale e realistica.
Siamo negli anni Sessanta del secolo scorso quando una giovane coppia, Norman e Claudette, decidono di trasferirsi in Inghilterra, inseguendo il sogno di una vita migliore. Lasciano così la Giamaica alla volta delle Midlands, approdando precisamente in quella regione definita la Black Country (‘’È stata Claudette ad insistere per venire in Inghilterra. Voleva andarsene da questa isola bastarda, così diceva quando ho ricevuto una lettera dal mio vecchio compagno di scuola, che mi scriveva quanto era bella la vita nella Black Country… c’è così tanto vero lavoro da uomini, che posso provare a fare mille cose, prima di sceglierne una…’’). Purtroppo, però, ben presto tutte le aspettative della coppia si sgretolano sotto i duri colpi del razzismo più violento, della miseria, della desolazione umana e dell’emarginazione nei sobborghi di periferia (‘’Un sacco di queste case sembravano più adatte ai polli che alle famiglie. Non c’è niente in Giamaica se si può paragonare a Bilston. Non c’è un solo muro di Bilstol che non è sporco e annerito di fuliggine. I bambini piccoli correvano nudi per strada e facevano la cacca, dove si accovacciavano… e quando mi vedevano urlavano Negro! Negro! Si fermavano a fissarmi con la bocca aperta per lo stupore, come se fosse atterrato un bombardiere. Avevamo lasciato il giardino dell’Eden per la Terra di Latte e Miele, e avevamo trovato Sodoma e Gomorra’’). A causa dei vapori, del catrame, della naftalina e del coke, Norman si ammala, prima perdendo la vista e successivamente iniziando a soffrire di atroci mal di testa. È costretto così a rimanere a casa, badando ai suoi figli, Robert e Glorie, coltivando il suo giardino e le sue amate rose, in contrapposizione ‘’all’odio, all’incazzosità e alla cattiveria mentale rivolta a loro, che provengono dalla Indie Occidentali’’. Nel frattempo, Claudette sprofonda nella depressione e nella disperazione (‘’Sono stanca. Non posso occuparmi di te, badare ai bambini e fare due lavori, quando ogni minuto ho paura che qualcuno busserà alla porta e ci prenderà a manganellate in testa. Non posso reggere quest’ansia nel cervello… Io non voglio adattarmi meglio alla sofferenza. Io voglio essere felice’’).
Mendez decide di lasciare ignote le sorti della coppia di immigrati giamaicani, facendoci atterrare nel capitolo successivo in un passato recente, negli anni Duemila, dove conosciamo Jesse. Nero, cresciuto in una famiglia multirazziale di Testimoni di Geova, composta da una madre nera, violenta e disturbata mentalmente, dal padre adottivo bianco, Graham, e dalle due sorelle. Lo conosciamo appena diciannovenne, battezzato da tre anni, in procinto di diventare un servitore del ministero, ‘’uno che faceva discorsi importanti dal pulpito col microfono’’. Ma c’è qualcosa che turba Jesse, che gli fa venire prurito su tutto il corpo quando è in compagnia di una ragazza; ‘’sa che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato e spera che non venga fuori la verità’’. Di lì a poco, Jesse conosce durante le sue peregrinazioni per le case di quartiere, con Svegliatevi! e Torre di Guardia per le mani, la prima coppia di ragazzi gay, che vivono insieme come una coppia sposata, e dopo aver fatto delle avances al suo compagno di congregazione Fraser, si ritrova emarginato nelle mura domestiche e disassociato dalla comunità di Geova. Decide di scappare di casa, senza lasciare traccia, di trasferirsi a Londra, dove avrà inizio la sua discesa agli inferi, fatta di droghe, di prostituzione, di clienti avvicinati su Gaydar o di persona, di Gay Street e locali notturni come il Coleherne, sempre alla ricerca di ‘’un paparino bianco, sulla cinquantina, con una giacca elegante che dava l’idea di avere un bel gruzzolo, che profumava di successo. Lui era soltanto un nero scapestrato che poteva soddisfarlo’’. Ma c’è ben presto qualcosa che inizia a mancare, c’è la necessità di un’interconnessione spirituale con qualcuno che sappia arrivare nel profondo, e quel qualcuno sarà Owen, il coinquilino nella Bruce Grove londinese. L’intellettuale bianco, il poeta che ha fatto coming out in età avanzata, dopo un amore mai consumato ai tempi dell’università col professore d’inglese, morto di AIDS, e dopo il lutto per la morte del padre. Owen, conosciuto come l’eterosessuale e il padre modello, che ha lasciato tutto, la moglie Anya e le due figlie, decidendo di non rinnegare più la sua vera natura (‘’non è che la sessualità cambia nel bel mezzo della tua vita… spetta a noi decidere quanto vogliamo essere sinceri con noi stessi’’). Si incontrano Jesse e Owen, si riconoscono tra mille, ascoltano musica, parlano di letteratura, loro che sono ai margini della società, soli il giorno di Natale, senza il calore di una famiglia, senza più radici (‘’Jesse poteva stare in eterno ad ascoltare il cervello di Owen che dispensava quei pensieri come caramelle. Voleva essere ipnotizzato da qualcuno con un cervello molto raffinato ed un cazzo molto grosso’’). Ma il destino beffardo è sempre in agguato, e Jesse non riuscirà a viversi la passione e la relazione con Owen, a causa della situazione incerta che entrambi vivono, in attesa dell’esito del test HIV, e successivamente per l’incidente di Owen, che gli arrecherà danni alla colonna vertebrale, riducendolo nuovamente a proprietà della moglie, disposta a riportarlo a casa per salvare apparenze e famiglia.
A questo punto Mendez si conduce per mano verso la fine di questa odissea moderna, quattordici anni più avanti, esattamente nel 2016 con Jesse ormai adulto, che convive con Owen. I due si rincontrano al Light Cafè, dove lavora Jesse, si abbracciano, piangono, si scambiano i numeri e vanno a letto insieme, per poi trasferirsi in breve tempo in una casa vittoriana ristrutturata e decidere di sposarsi. Jesse ha un buon lavoro, e scribacchia a tempo perso, con l’idea di pubblicare prima o poi qualcosa di suo, mentre Owen scrive ancora in versi, ma non più sulle lotte sociali, bensì sul sesso e sull’amore, ‘’perché vuole diventare la voce queer della poesia’’. Sono ormai cresciuti e maturati, ben inseriti nella società, con amici che dispensano consigli, affetto e pic-nic, ed è proprio grazie ad un amico che Jesse alla fine ha modo di ritrovare le sue origini perdute e la figura di un padre, desiderato per tutta la vita e saputo morto nella primissima infanzia. Grazie alla somiglianza con un pittore incrociato nei mercatini di periferia negli anni Novanta, che si ritraeva nudo con le rose Otello tra le mani, si risale al nome di Robert Alonso, figlio di quella coppia giamaicana approdata con utopie di successo e benessere ben 3 generazioni prima, caduto in disgrazia a causa dell’AIDS, abbandonato dalla moglie, che aveva poi deciso di voltare pagina sposando il bianco e credente Graham. Per tanti anni la donna aveva rinnegato il suo passato e con esso anche il primogenito Jesse, dando sempre una versione sulla paternità menzognera e distorta.
Latte Arcobaleno ci presenta un bestiario umano, fatto di malvagità, di prostituzione e perversione, di razzismo graffiante, di non accettazione del sé più profondo, dal colore della pelle (neritudine) fino al proprio orientamento sessuale; ci presenta Jesse, un personaggio che è un fuggitivo, che vive nell’ansia e nel degrado; ci fa riflettere sul credo, che giudica, che non accoglie e che condanna, e sulla famiglia, che spesso chiude le porte dinanzi alla diversità, riducendo i propri figli a vittime, ad aborti sociali. Latte Arcobaleno ci presenta tanto sesso, senza riserve e senza limiti, collegato anche alla morte e all’AIDS, con un linguaggio potente e volutamente provocatorio, a ricordarci la natura primitiva e “schifosamente selvaggia” degli esseri umani. E proprio quando non c’è più via d’uscita, proprio quando la sofferenza ha raggiunto l’apice, ecco che arriva la redenzione, laddove passato e presente si incontrano per dare risposte a lungo celate, per dare amore laddove la propria madre offriva bugie, cinghiate e tazze di latte maleodorante con cereali colorati all’interno (da cui il titolo del libro), ‘’perché la verità in un modo o nell’altro trova sempre il modo di raggiungerti’’.
Paul Mendez ha regalato ai lettori di tutto il mondo il suo primo romanzo coraggioso e commovente, con fortissime note autobiografiche; Mendez, infatti, è nato nel Black Country nel 1982, e a 17 anni ha deciso di lasciarsi alle spalle la comunità dei Testimoni di Geova e di cercare là fuori il suo vero sé.
Se avete lo stomaco forte, leggete Latte Arcobaleno, leggete le sue pagine piene di violenza fisica, lacrime, sesso e sperma; leggete di come il candore latteo, che rimanda all’idea d’ingenuità senza peccato e di falso perbenismo, possa mescolarsi ad un arcobaleno di esperienze, verità e maturità, in una pluridimensionalità di relazioni e sentimenti. Ne verrete ricompensati con un inno glorioso alla rivendicazione della diversità e della libertà di espressione, che va oltre ogni genere, difficile da dimenticare, che abbraccia gli emarginati e gli indifesi, e li segue attraverso il loro percorso catartico fino al momento della resurrezione nella terra degli uomini, e non di un Dio.
(recensione di Valeria Bonante, grafica di Martina Bonanno)